domenica 15 luglio 2007

una domenica al lago

Campo lungo. Le persone sono puntini. I puntini vedeteli come formiche che trasportano cose delle loro stesse dimensioni.
I puntini, o le formiche, sono, in ordine di apparizione: magaCi, MammaChioccia, Father.
Scorrono i titoli di testa con i loro nomi. In sovrimpressione.
In sottoimpressione, invece, tutto quello che la pellicola non riesce a mostrarvi: fa caldo, oggi. In riva a questo laghetto circondato di colline, erba bruciacchiata e alberi con ombra in allegato. Ci veniamo spesso, qui. Non solo d'estate. E' uno dei nostri posti per le scampagnate. C'è tutto e solo il necessario: due casupole di legno che ospitano altrettanti ristorantini, una batteria di bagni chimici nascosti con discrezione, un'area dedicata a una sorta di emporio all'aperto, tutto vestiti sgargianti, accessori, sgabelli e corde lanciate a tracciare confini dei singoli reparti. Beh, già, ci sono anche i bagnanti: famigliole, in numero limitato; ragazzi di età simile alla mia, in abbondanza; punkabbestia (e cani), sparsi dappertutto come fossero origano <adoro l'origano>.

Di seguito, gentilissimi & gentilissime, qualche scampolo della giornata che abbiamo passato.

Prima scena: Father prende un pezzo di legno e inizia a lavorarci con il suo inseparabile coltello milleusi. Intanto divaga, mi chiede come sta andando in azienda. Faccio spallucce e dico "bene" con un sorriso. Insiste, passando in rassegna i colleghi: col tempo gliene ho portato anche qualcuno a casa. <A proposito, che il mondo sappia: a magaCi piace da matti fare festicciole tematiche a domicilio.> Se immaginate la macchina da presa, dovrebbe stare alle nostre spalle e occhieggiare verso la superficie liscia. Noi risultiamo un po' in ombra e il resto è un lievemente sovraesposto.
I trucioli volano via veloci, Father soffia, guarda, scolpisce, soffia, borbotta perché il pezzo è un po' andato, finisce con un "vualà" sommesso e mi porge il risultato con un tocco di sacralità. Ci ha messo una trentina di minuti: è un'orchidea cicciotta che ha una faccia buffa proprio dove parte il gambo, una specie di gnomo floreale. Arrossisco e sussurro che adoro le orchidee, lo ringrazio e gli dico che lo amerò per sempre e non mi concederò a nessun altro che non sia lui. Mi guarda divertito e mi apostrofa con uno "stupida" e un colpetto sulla spalla. Rotolo via verso l'acqua, accusando la mazzata. Ci ritroviamo a qualche centimetro dai ciotoli umidi e Father, sopra di me, mi raccomanda di rimanere calma con un affanno fintissimo nella voce. Mi sporgo per controllare mamma. Fuoco su di lei: accovacciata sull'asciugamano rosso con i granchi. Ha staccato gli occhi da MarieClaire per depositarli sulle nostre sagome scomposte. Ci chiama, stringe gli occhi e fa la sua espressione contrita, indica la teglia di pasta al forno iper condita che ci siamo portati dietro. Percepiamo una muta minaccia di negarci la sussistenza, smettiamo di fare gli scemi e ci avviciniamo per cibarci alla fonte delle delizie.

Stacco: è l'una e qualcosa, abbiamo mangiato, ci stendiamo al sole. Nessuno parla. Dormicchio. Mi volto di lato e osservo un cane che entra in acqua e ne esce spruzzando la gente intorno.
Esamino la faccia di mamma, cercando di non farmi notare. La pelle ha un colore poco meno che normale e la cosa non mi piace. Stanotte ha avuto un'altra crisi, l'ho accompagnata in bagno. Ha voluto che rimanessi dietro la porta, l'ho sentita bisbigliare piccole minacce alla sua immagine allo specchio. Ci ha detto più volte, durante la settimana, che la gita si sarebbe fatta, e nulla, nemmeno la sua salute altalenante, avrebbe impedito che ci prendessimo un giorno per noi.
Finora comuque tutto bene. Mentre mangiavamo ci ha raccontato dell'ultimo medico, quello che la sta seguendo da qualche mese. Sembra bravo, ha detto, è uno che annuisce molto mentre parli. Ed è terribilmente curato, a quanto sembra, un vero damerino. Preciso e ordinato come il suo studio, che pare non ci abbia vissuto quasi per niente, tanto è lindo.

Seconda scena: Father si è immaginato questa storia su un medico automa, costruito apposta per curare, che non ha cuore perchè è un robot, ma segue benissimo i clienti. Il medico automa sta in una casa colorata al limitare di un enorme stanzone dove trovano posto i suoi pazienti. Li riceve in una bella stanza, piena di cose interessanti, con tanta musica allegra e le finestre che danno su prati come quello su cui bivacchiamo. Un bel giorno un paziente lo guarda e scuote la testa: gli fa notare che non è possibile che un bravo medico come lui non abbia un cuore. Curare significa accogliere, dice il paziente, e per accogliere occorre vibrare insieme. E per farlo è necessario avere un cuore.
Al che il medico automa, per dimostrare di non aver nulla al centro del petto, si toglie la camicia e indica la griglia del proprio torace. Il paziente gli sorride sardonico, così il medico automa si guarda in un grande specchio che tiene di fianco al lettino e alla bilancia pesa persone. Proprio sotto l'attaccatura del collo c'è una massa irregolare, di un rosso acceso, che non la smette di pulsare. Il medico automa dapprima non capisce. Si fa tanti, tantissimi esami. Scopre di avere sviluppato una strana allergia ai suoi pazienti, agli esseri umani.
Prendo la parola: la storia la voglio concludere io. Immagino il decorso della malattia del medico automa: gli specialisti, umani e robotici, che gli dicono che non c'è cura a questa allergia. Dal cuore nasceranno vene e arterie, e vene e arterie corroderanno le strutture di acciaio inossidabile, fino a trasformarle in ossa, e i servo meccanismi marciranno fino a diventare muscoli e nervi. Ultimo verrà il cervello, che prenderà il posto del meraviglioso chip installato proprio in cima alla fronte del medico automa. Nell'ultimo giorno della malattia quel chip si scioglierà in una struttura in tutto e per tutto simile alla materia grigia dei suoi pazienti.
"Cosa succede, allora?" chiede Father. Quando il robot diventa uomo, continuo, scopre che il suo cervello non funziona più bene, che non pensa più con la chiarezza di prima. Che il compito originario, curare gli umani, è sporcato dalle mille piccole e grandi esigenze della propria esistenza biologica. La vita lo corrompe, la vita lo allontana, la vita minaccia di chiuderlo a riccio. Il medico automa capisce che non riuscirà più a curare davvero i pazienti, perché una parte dei propri processi cognitivi ormai è costretta a rivolgersi verso se stesso, verso la complessità che è diventato. I pazienti stessi capiscono, e iniziano a lasciare lo stanzone dove prima aspettavano le sue visite. Finché non rimangono che pochi disperati che chissà perché credono ancora in lui. Uno di loro, un giorno, affronta il dottore e gli grida che sta distruggendo tutto, si sta lasciando andare alla vita senza viverla. Così il dottore, finalmente, capisce la sostanziale differenza del mondo imperfetto che ha ereditato: laddove prima aveva funzioni codificate ora c'è qualcosa di molto più insidioso, ovvero quelli che gli umani chiamano obiettivi. E il fatto che tutto sia più difficile è solo un corollario e non significa che non possano essere portati a termine. Il dottore automa non ha risolto nulla, ha solo avviato il lento processo per risolvere i suoi problemi, ma in quel momento si sente leggero. Come mai si era sentito prima. E capisce che la felicità è quell'emozione così tipica degli umani, che deriva non tanto dall'aver finito un percorso, quanto dall'averlo deciso.
Mi inchino al pubblico e dico "the end".
MammaChioccia applaude. Il sole le illumina il viso. Un po' sudata: le chiedo se va tutto bene. E' una domanda retorica, mi fanno notare in coro Father e lei. Evito di chiedere se la risposta debba essere sì o no.

Secondo stacco: impacchettiamo le cose. Mamma ci aspetta in cima al pendio, come sempre. Io e Father ci carichiamo dei resti del pranzo e delle coperte. Sgoccioliamo perché prima di andarcene abbiamo fatto il quinto bagno con mamma che ci avvisava che in macchina avremmo bagnato tutto. L'acqua era bella, oggi, ne valeva la pena. Ridiamo sui nuovi stili di nuoto che Father mi ha mostrato. Ha trovato una pietra piatta molto carina, durante una delle sue spericolate immersioni: me la fa vedere e preannuncia un nuovo dipinto della collezione "acqua dolce".

Terza scena: siamo sulla via del ritorno. Il traffico è lento, come ha detto mamma almeno dieci volte: saremmo dovuti partire prima, non avremmo dovuto fare l'ultimo bagno. Non costa nulla, una volta ogni tanto, seguire le sue indicazioni. Amen. Alla radio ci sono solo successi italiani anni sessanta e settanta, a ripetizione, così immagino di essere finita indietro nel tempo, e la campagna mi aiuta: alberi che sconfinano sulla strada, casolari vecchi e puntellati da contrafforti rugginosi, con i tetti curvi invasi di erba. Mi rilasso un po', stesa sul sedile di dietro. Guardo la fodera del soffitto e gli schienali davanti a me. Il telefono di mamma squilla, la sento annuire, fa il nome di SorellaMalvagia, sospira, dice di non preoccuparsi, che fanno sempre così. In ogni caso, si affretta ad assicurare, stiamo tornando e magari le preparerà una cosa buona. Non ci deve pensare. La deficiente all'altro capo deve averle detto qualcosa su quanto le dispiaccia non essere venuta. Mamma risponde che potrà venire la prossima volta, non c'è problema. Sì, certo, la prossima volta, quando nevicherà in agosto. Chiudo gli occhi per un po' e leggo le lettere incise dalle lucciole sotto le palpebre.

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