lunedì 3 settembre 2007

dieci e quarantacinque

Parte 1: sorella
 
Mi ha preso, trascinato in stanza, ha chiuso la porta dietro di sè, si è guardata in giro come se temesse microfoni nascosti. La piccola pausa di silenzio è stata più che sufficiente, ma per amore di convenzioni sociali fra sorelle ho deciso di aspettare la componente verbale del racconto.

Ovviamente si è parlato del PrincipeAzzurroMancato. Che nei giorni scorsi è apparso troppo freddo: ha  lavorato fino a tardi, risposto con sms telegrafici, è tornato a casa come un manichino adagiato su un nastro trasportatore. Poltrona, tivù e discorsi evasivi. A un anno dall'inizio della loro folgorante relazione l'impressione è che tutto sia precipitato in una fossa ovattata sul fondo dell'oceano. Dalla quale, per definizione di abominevole pressione in fondo al mar, è piuttosto difficile uscire. Ma lei non vuole una cosa del genere, lei si aspetta altro dalla vita con qualcuno. Lei. E' pronta a dargli il calcio in culo che si merita, altrochè.

Ho chiesto: cosa ha fatto per rispondere alle (ipotetiche) provocazioni di lui? Ha cercato di parlarne? Se ha un'impressione del genere da così tanto tempo (si parla di un mese e mezzo almeno, per la cronaca) perché non condivide i suoi dubbi? Nelle due settimane di ferie che si sono sciroppati, non era andato tutto a gonfie vele? Lei, dal canto suo, si sente ancora attratta da lui come nei primi (e mitici) giorni?
Come prevedevo, ha iniziato la sua ormai collaudata ritirata strategica, schierando il fuoco di fila delle complicazioni: è partita da ostacoli di natura procedurale ("non posso farlo, non sarebbe corretto") fino ad arrivare alle obiezioni di natura ideologica ("però se mi comportassi così ogni volta, sarebbe come dichiarare la fine di un rapporto basato sulla fiducia").
Al quinto cavillo le ho chiesto di rendersi conto di come si stava sviluppando la conversazione. Era venuta da me per raccontare un problema, avevo cercato di analizzare il problema con lei, durante l'analisi si era dedicata a smontare il problema, a "normalizzarlo" inserendolo in un flusso di "eccezioni gestite" nella sua applicazione "RelazioniAmorose". Mentre ero in piena requisitoria mi ha urlato addosso: io e il mio lavoro del cazzo, non sto discutendo con un computer, lo devo capire una volta per tutte.
Ho cambiato tattica: mi sono avvicinata agli occhioni sull'orlo del pianto e le ho detto che lo so, che non è facile gestire la propria vita, che non c'è uno schema da seguire, che gli altri sono sembre bravi a sostituirsi a noi al momento delle scelte, ma è solo perchè non soffrono degli effetti delle scelte. Però sono sua sorella, un po' di bene le voglio, non mi piace che stia male, e soprattutto che stia male sempre per gli stessi motivi. Capisco che siamo tutti ripetitivi in modo analogo: si chiama carattere, però quando chiedi consiglio a una persona di solito lo fai proprio per confrontarti con un carattere diverso e capire meglio quali sono i bug che ti caratterizzano.

Mi ha risposto che non fa niente, si è ricomposta e ha piazzato il secondo spazio pubblicitario di silenzio, poi ha detto che sì, deve cercare di viversi le cose nel modo giusto (bandierina: è la centoquarantaduesima volta). L'ho abbracciata e le ho detto che dovevo proprio andare, che magari stasera avremmo parlato di più.


Parte 2: mamma

Aveva già le chiavi in mano, la giacca leggera che pendeva dall'avambraccio sinistro, quell'espressione austera che le prende quando si va all'ospedale. Mi ha chiesto come va con la sorella: ho fatto spallucce, che significa "nessun pericolo di vita", ho aggiunto che l'avrei ragguagliata strada facendo. Siamo salite in macchina nel consueto silenzio mattutino, masticando i sapori dei dentifrici e il residuo dei caffè. Radio accesa, traffico compatto, clacson. Ho chiesto com'è andata la nottata. Non mi sembrava che si fosse svegliata e me lo ha confermato: tutto tranquillo, si sente meglio in questi giorni. Sarà il sole di agosto. Sarà che prima o poi le cose passano. Ride. Ho usato un semaforo rosso per trascurare la strada e fissare le pupille nelle sue: ho risposto che prima o poi riprenderà una vita normale e le mancherà tutta questa routine. Le mancherà fare questa strada insieme e parlare. Non parlavamo tanto da quando avevo finito il liceo, le ho ricordato. Senza contare le amiche del circolo: quelle non le avrebbe mai conosciute senza la sua salute altalenante.
A proposito, ha detto, e ha iniziato a parlare di Mary45 (nome d'arte, se ve lo state chiedendo), che descrive il figlio come se fosse il primo (e il migliore) ad aver fatto qualsiasi cosa, ma "per il resto" è una tipa buonissima. Ha detto proprio così, buonissima: ho cercato di immaginarmi questa persona che non farebbe male a una formica, che si batterebbe per qualsiasi ingiustizia, per minuscola che possa essere. Una specie di super massaia, vestita di grembiule della prova del cuoco bigodini e tuta attillata, capace sempre di scegliere per il meglio e di migliorare le esistenze dei fortunati che le capitano intorno. Nonostante i suoi meriti, la super massaia un bel giorno si ammala. Perché la fortuna è bendata, ma soprattutto perché tutti gli eroi, per quanto positivi, non possono progredire nella propria storia senza il supporto di un conflitto interno. Ma il conflitto interno deve essere capace di generare una dinamica: e quindi come uscirà la donna buonissima dall'esperienza diretta del dolore? Ho deciso di scommettere una grossa somma su di lei.
Siamo arrivate al parcheggio dell'ospedale. Sono scesa insieme a mamma, breve update sulla storia tormentata della sorella e qualche parola su di me: gli ultimi giorni a lavoro, il marasma di piccole e grandi cose da fare, i fugaci incitamenti da spogliatoio pre partita che ci dispensa il mega capo quando abbiamo ormai gli occhi rossi per un'intera giornata passata a vivisezionare il codice. Il fatto che, in qualche strano modo che nessuno di noi riesce a ben capire, ci stiamo bene, in quelle quattro mura. Ce le facciamo bastare, magari lamentandoci. Alla fine ti costruisci il tuo habitat, invece di subirlo soltanto: ci sedimenti la tua corazza fino a che l'ambiente non diventa la tua protezione, per ostile che possa sembrare in prima battuta.
Mamma ha annuito, ha detto che sembrava una cosa adatta al suo ultimo periodo. Le ho stretto la mano, gliel'ho accarezzata. Abbiamo aspettato fino alle nove e mezza, parlucchiando e stando zitte. Ci hanno dato le analisi: c'era questo ragazzetto dritto con i capelli scompigliati e il camice aperto. Ha guardato i fogli e ha fatto "tsz", poi ha sorriso, ha detto "alla prossima". I valori non erano malaccio.
Uno degli infermieri che seguono mamma ci ha incrociate, salutate e si è fermato un po' a chiedere come andava. Tutto bene, ha risposto lei, si tira avanti. Si è scusata di non poter restare ancora (al che abbiamo riso tutti: scusarsi di non poter restare in corsia è stata eletta battuta della settimana), ma l'accompagnatrice ufficiale (mi ha indicata) era attesa altrove. Ho fatto un inchino e le ho graziosamente mostrato l'uscita.
In macchina, siamo tornate a casa con la strada più sgombra. Sembrava rilassata, quasi assonnata. Non abbiamo parlato molto. Mi ha detto che deve andare a fare la spesa, ha elencato alcune cose che non deve assolutamente dimenticare.

L'ho lasciata davanti al portone e mi sono fiondata in azienda.

Dieci e quarantacinque del mattino: il momento di iniziare la mia giornatina di lavoro.

lunedì 30 luglio 2007

rm -fr oggi/*

Oggi giornata no.
Per capire che lo sarebbe stato bastava annusare l'aria all'ingresso dell'open space.

Ma procediamo per gradi, gentilissimi & gentilissime: la prima notizia è che io lavoro. Da un po' ormai, e cioè da quando ho affrontato di petto i primi due anni di Informatica, ricavandone un dolore sordo simile ad una sublussazione lasciata a macerare. All'epoca uscivo con questo tipo tutto capelli che suonava in un gruppuscolo post new wave. Ai concerti si truccava più lui di me e la cosa mi piaceva da matti. E poi aveva un certo talento nelle lyrics: sputava fuori queste cose piene di consonanti che parlavano di rapporti umani con pochissima umanità. Ci trovavo una carica filosofica quasi esagerata per la nostra età. Poi venne fuori una sua ben più prosaica passione incontrollabile per le bassiste bionde. Per UNA bassista bionda che gli avevo presentato IO, tra l'altro. Ma lasciamo sfumare la questione, va.
Mentre scorrazzavo per la città insieme al mio romantico e tenebroso lui, e scoprivo piccole cose inutili che mai avrei potuto immaginare, tutte legate al concetto di "alternative night-shift public relations", maturai un odio al limite dell'isteria per la deformazione fisica derivante da studio intensivo. Al muto grido di "scoliosi&miopia no grazie", iniziai a mandare raffiche di curricula in cui compariva solo l'età e qualche sottospecie di corso online: mi presero in una minuscola aziendina che sviluppava siti internet ed era la terza parte della terza parte di un colosso del settore. Il capo di allora, un individuo un po' troppo alto e silenzioso per i miei gusti, mi spiegò che avevano appena vinto una grossissima commessa "tragicamente al ribasso": erano costretti a "mettere dentro una carrettata di persone" fra cui la sottoscritta. Insomma, ringraziai per la sincerità e iniziai a farmi le ossa per qualche spicciolo.

Da allora ho cambiato tre aziende e ho fatto amicizie improbabili in luoghi mediamente poco ospitali.

Avanti veloce fino ad oggi. Siamo riuniti in sala 15, quella di fianco alla macchinetta del caffè. Dalla finestra si vede la strada che costeggia il nostro palazzone e descrive un'ampia curva prima di andare a sbattere nella sagoma di un centro commerciale multipiano ("aperto anche la domenica"). Il team è composto di una decina di persone: tre sistemisti (fra cui magaCi), cinque sviluppatori e due androidi-coordinatori di basso livello. Carne da cannone, chi più chi meno.
Mentre rumoreggiamo, rielaborando con greve creatività l'esito delle ultime di campionato o della mega mangiata di carne comunitaria di due settimane fa, il capo-cyborg entra nella stanza con la solita flemma. E' un nanetto pelato e glabro che, secondo la leggenda, è nato in completo grigio e non ha mai pronunciato parolacce. Il vocabolario prima di lui aveva molte meno parole, le frasi prima di lui erano più piccole. Saluta sempre, chiede sempre, posticipando le domande con qualche formula di estrema cortesia. Ma per qualche strano fluido che di sicuro produce, non ho mai sentito nessuno dirgli altro che "subito, sarà fatto" o variazioni del caso. E' affascinante, sul serio. In senso sociologico, intendo. A modo suo sa essere perfino simpatico, ma quando ridiamo delle sue battute c'è sempre un sotterraneo senso di colpa, come se avessimo ceduto al nemico.
Oggi ha in mano il suo blackberry e prima di attaccare il discorso tempesta il tastierino. Il rumore di un blackberry usato da un capo: quella successione di teneri clic concatenati che ricorda il movimento di una ruota su un bell'ingranaggio di plastica. Può dare assuefazione, cavoli.
Capo-cyborg alza gli occhi verso di noi e reprime un sospiretto, sbircia uno dei coordinatori, fa un cenno, ci dice che per inizio settembre è prevista una major release (hanno cercato di posticipare ma nulla, si deve fare "here and now"), tutte le funzionalità principali saranno impattate e si è deciso di aggiungere la componente di prenotazione automatica condizionale, quella che abbiamo discusso (e osteggiato, per quanto può valere) per mesi. Siamo un buon gruppo, dice, abbiamo dimostrato di saper reggere, e si rende conto che un avviso a bruciapelo, a pochi giorni dalle vacanze, suona come un tradimento.

Ma è un periodo di crisi, dice, e scandisce bene le parole. La voce si è fatta più grave, con una sottile tonalità acciaio temperato che induce gli ultimi chiacchiericci a liquefarsi. Crisi vuol dire fare quello che dice il cliente, oppure soccombere ad altri fornitori già presenti, che ci soppianteranno in men che non si dica.

Ci guardiamo in faccia e se le nostre espressioni potessero parlare, direbbero "almeno questa volta si è degnato di darci una specie di spiegazione, yuhu". Mentre assorbiamo l'idea di stare qui dentro fino alle dieci (minimo) ogni giorno per le prossime tre settimane, sostituendo immagini di noi seminudi, sudati e abbronzati in spiaggia, il capo si alza, saluta, si scusa, dice che deve correre in riunione da un altro cliente. Si degna di lasciar trapelare una goccia di autentica stanchezza nelle seguenti parole "in questo intero mese ho visto i miei figli solo tre ore sabato scorso". Sorride un attimo e in men che non si dica è svanito: rimaniamo per una manciata di istanti a guardarci in faccia, poi qualcuno urla "al lavoro ciurma", e ci accatastiamo alla macchinetta per un ottimo surrogato di bevanda calda che ci dia un surrogato di carica.

Insomma, oggi giornata no. E anche: oggi giornata luunga, con tutti i casini che abbiamo dovuto sbrigare dopo la riunione. Ma ci sono alquanto abituata, ormai.

piesse: ecco qualche personaggio del mio ufficio:
capo-cyborg: se avete letto il post, ormai sapete cosa aspettarvi da lui
schiavetto: è il mio assistente personale ai sistemi. è da poco con noi. non si è ancora abituato ai ritmi, ma quello sguardo di terrore nei suoi occhietti da topolino svanirà presto, vi assicuro
auldo: è il sistemista esperto che lavora con me ormai da un po', qui dentro. immaginatevelo come un castoro obeso in forma umana. simpatico, forse un po' troppo calmo per i miei gusti, ma vabè
anto1: secca come un appendiabiti, bel culo (lo dicono i ragazzi, mica io), occhioni, quando parla sembra la pubblicità di hello kitty. è una brava ragazza, a quanto pare, casa e chiesa e robe simili. non molto esperta, si fa prendere dalle ansie, a volte.
cip: sempre curvo, come se covasse la propria tastiera. campione di battitura veloce su tasti. parla per sigle, è iscritto a duemila forum. fa anche ridere, quando riesci a capirlo. ha una sua visione fatalistica del mondo, come se tutto stesse allo specchietto retrovisore del suo chopper. ganzo, tutto sommato.
ciop: amicone di cip, mostra di conoscerlo dal giurassico. occhialetti con montatura sottile, barba non fatta, camicioni, battuta facile, parla parecchio. è ossessionato da vacanze in posti esotici. mangia davvero, ma davvero tanto.
tarta: è quello lento. se sul pianeta terra facessero un censimento globale, lui risulterebbe "la lumaca". perde tempo praticamente ovunque, ha un rapporto conflittuale con i telefoni e con le telefonate dei propri familiari.
jon: timidissimo, scostante, preciso, piuttosto anonimo. ancora da scoprire, sebbene abbia avuto ormai tutto il tempo per farsi conoscere.
andro-coord1: è un lui. faccione quadrato e rasato. sorride parecchio, ha la voce calda, scrive un monte di roba: per lo più mail, excel e powerpoint. non ha vita privata, e ci tiene a questo suo status. non ha nemmeno una vera personalità, o almeno non si degna di condividerla.
andro-coord2: non meriterebbe l'appellativo di andro, in effetti. è una lei ed è molto simpatica, ma in alcune situazioni di crisi si è dimostrata resistente tanto quanto il modello maschile, facendoci dubitare sulla sua natura umana. riccia, bruna, bassina, non dispiace ai bavosi abitatori di ced che si ammucchiano qui dentro.

domenica 15 luglio 2007

una domenica al lago

Campo lungo. Le persone sono puntini. I puntini vedeteli come formiche che trasportano cose delle loro stesse dimensioni.
I puntini, o le formiche, sono, in ordine di apparizione: magaCi, MammaChioccia, Father.
Scorrono i titoli di testa con i loro nomi. In sovrimpressione.
In sottoimpressione, invece, tutto quello che la pellicola non riesce a mostrarvi: fa caldo, oggi. In riva a questo laghetto circondato di colline, erba bruciacchiata e alberi con ombra in allegato. Ci veniamo spesso, qui. Non solo d'estate. E' uno dei nostri posti per le scampagnate. C'è tutto e solo il necessario: due casupole di legno che ospitano altrettanti ristorantini, una batteria di bagni chimici nascosti con discrezione, un'area dedicata a una sorta di emporio all'aperto, tutto vestiti sgargianti, accessori, sgabelli e corde lanciate a tracciare confini dei singoli reparti. Beh, già, ci sono anche i bagnanti: famigliole, in numero limitato; ragazzi di età simile alla mia, in abbondanza; punkabbestia (e cani), sparsi dappertutto come fossero origano <adoro l'origano>.

Di seguito, gentilissimi & gentilissime, qualche scampolo della giornata che abbiamo passato.

Prima scena: Father prende un pezzo di legno e inizia a lavorarci con il suo inseparabile coltello milleusi. Intanto divaga, mi chiede come sta andando in azienda. Faccio spallucce e dico "bene" con un sorriso. Insiste, passando in rassegna i colleghi: col tempo gliene ho portato anche qualcuno a casa. <A proposito, che il mondo sappia: a magaCi piace da matti fare festicciole tematiche a domicilio.> Se immaginate la macchina da presa, dovrebbe stare alle nostre spalle e occhieggiare verso la superficie liscia. Noi risultiamo un po' in ombra e il resto è un lievemente sovraesposto.
I trucioli volano via veloci, Father soffia, guarda, scolpisce, soffia, borbotta perché il pezzo è un po' andato, finisce con un "vualà" sommesso e mi porge il risultato con un tocco di sacralità. Ci ha messo una trentina di minuti: è un'orchidea cicciotta che ha una faccia buffa proprio dove parte il gambo, una specie di gnomo floreale. Arrossisco e sussurro che adoro le orchidee, lo ringrazio e gli dico che lo amerò per sempre e non mi concederò a nessun altro che non sia lui. Mi guarda divertito e mi apostrofa con uno "stupida" e un colpetto sulla spalla. Rotolo via verso l'acqua, accusando la mazzata. Ci ritroviamo a qualche centimetro dai ciotoli umidi e Father, sopra di me, mi raccomanda di rimanere calma con un affanno fintissimo nella voce. Mi sporgo per controllare mamma. Fuoco su di lei: accovacciata sull'asciugamano rosso con i granchi. Ha staccato gli occhi da MarieClaire per depositarli sulle nostre sagome scomposte. Ci chiama, stringe gli occhi e fa la sua espressione contrita, indica la teglia di pasta al forno iper condita che ci siamo portati dietro. Percepiamo una muta minaccia di negarci la sussistenza, smettiamo di fare gli scemi e ci avviciniamo per cibarci alla fonte delle delizie.

Stacco: è l'una e qualcosa, abbiamo mangiato, ci stendiamo al sole. Nessuno parla. Dormicchio. Mi volto di lato e osservo un cane che entra in acqua e ne esce spruzzando la gente intorno.
Esamino la faccia di mamma, cercando di non farmi notare. La pelle ha un colore poco meno che normale e la cosa non mi piace. Stanotte ha avuto un'altra crisi, l'ho accompagnata in bagno. Ha voluto che rimanessi dietro la porta, l'ho sentita bisbigliare piccole minacce alla sua immagine allo specchio. Ci ha detto più volte, durante la settimana, che la gita si sarebbe fatta, e nulla, nemmeno la sua salute altalenante, avrebbe impedito che ci prendessimo un giorno per noi.
Finora comuque tutto bene. Mentre mangiavamo ci ha raccontato dell'ultimo medico, quello che la sta seguendo da qualche mese. Sembra bravo, ha detto, è uno che annuisce molto mentre parli. Ed è terribilmente curato, a quanto sembra, un vero damerino. Preciso e ordinato come il suo studio, che pare non ci abbia vissuto quasi per niente, tanto è lindo.

Seconda scena: Father si è immaginato questa storia su un medico automa, costruito apposta per curare, che non ha cuore perchè è un robot, ma segue benissimo i clienti. Il medico automa sta in una casa colorata al limitare di un enorme stanzone dove trovano posto i suoi pazienti. Li riceve in una bella stanza, piena di cose interessanti, con tanta musica allegra e le finestre che danno su prati come quello su cui bivacchiamo. Un bel giorno un paziente lo guarda e scuote la testa: gli fa notare che non è possibile che un bravo medico come lui non abbia un cuore. Curare significa accogliere, dice il paziente, e per accogliere occorre vibrare insieme. E per farlo è necessario avere un cuore.
Al che il medico automa, per dimostrare di non aver nulla al centro del petto, si toglie la camicia e indica la griglia del proprio torace. Il paziente gli sorride sardonico, così il medico automa si guarda in un grande specchio che tiene di fianco al lettino e alla bilancia pesa persone. Proprio sotto l'attaccatura del collo c'è una massa irregolare, di un rosso acceso, che non la smette di pulsare. Il medico automa dapprima non capisce. Si fa tanti, tantissimi esami. Scopre di avere sviluppato una strana allergia ai suoi pazienti, agli esseri umani.
Prendo la parola: la storia la voglio concludere io. Immagino il decorso della malattia del medico automa: gli specialisti, umani e robotici, che gli dicono che non c'è cura a questa allergia. Dal cuore nasceranno vene e arterie, e vene e arterie corroderanno le strutture di acciaio inossidabile, fino a trasformarle in ossa, e i servo meccanismi marciranno fino a diventare muscoli e nervi. Ultimo verrà il cervello, che prenderà il posto del meraviglioso chip installato proprio in cima alla fronte del medico automa. Nell'ultimo giorno della malattia quel chip si scioglierà in una struttura in tutto e per tutto simile alla materia grigia dei suoi pazienti.
"Cosa succede, allora?" chiede Father. Quando il robot diventa uomo, continuo, scopre che il suo cervello non funziona più bene, che non pensa più con la chiarezza di prima. Che il compito originario, curare gli umani, è sporcato dalle mille piccole e grandi esigenze della propria esistenza biologica. La vita lo corrompe, la vita lo allontana, la vita minaccia di chiuderlo a riccio. Il medico automa capisce che non riuscirà più a curare davvero i pazienti, perché una parte dei propri processi cognitivi ormai è costretta a rivolgersi verso se stesso, verso la complessità che è diventato. I pazienti stessi capiscono, e iniziano a lasciare lo stanzone dove prima aspettavano le sue visite. Finché non rimangono che pochi disperati che chissà perché credono ancora in lui. Uno di loro, un giorno, affronta il dottore e gli grida che sta distruggendo tutto, si sta lasciando andare alla vita senza viverla. Così il dottore, finalmente, capisce la sostanziale differenza del mondo imperfetto che ha ereditato: laddove prima aveva funzioni codificate ora c'è qualcosa di molto più insidioso, ovvero quelli che gli umani chiamano obiettivi. E il fatto che tutto sia più difficile è solo un corollario e non significa che non possano essere portati a termine. Il dottore automa non ha risolto nulla, ha solo avviato il lento processo per risolvere i suoi problemi, ma in quel momento si sente leggero. Come mai si era sentito prima. E capisce che la felicità è quell'emozione così tipica degli umani, che deriva non tanto dall'aver finito un percorso, quanto dall'averlo deciso.
Mi inchino al pubblico e dico "the end".
MammaChioccia applaude. Il sole le illumina il viso. Un po' sudata: le chiedo se va tutto bene. E' una domanda retorica, mi fanno notare in coro Father e lei. Evito di chiedere se la risposta debba essere sì o no.

Secondo stacco: impacchettiamo le cose. Mamma ci aspetta in cima al pendio, come sempre. Io e Father ci carichiamo dei resti del pranzo e delle coperte. Sgoccioliamo perché prima di andarcene abbiamo fatto il quinto bagno con mamma che ci avvisava che in macchina avremmo bagnato tutto. L'acqua era bella, oggi, ne valeva la pena. Ridiamo sui nuovi stili di nuoto che Father mi ha mostrato. Ha trovato una pietra piatta molto carina, durante una delle sue spericolate immersioni: me la fa vedere e preannuncia un nuovo dipinto della collezione "acqua dolce".

Terza scena: siamo sulla via del ritorno. Il traffico è lento, come ha detto mamma almeno dieci volte: saremmo dovuti partire prima, non avremmo dovuto fare l'ultimo bagno. Non costa nulla, una volta ogni tanto, seguire le sue indicazioni. Amen. Alla radio ci sono solo successi italiani anni sessanta e settanta, a ripetizione, così immagino di essere finita indietro nel tempo, e la campagna mi aiuta: alberi che sconfinano sulla strada, casolari vecchi e puntellati da contrafforti rugginosi, con i tetti curvi invasi di erba. Mi rilasso un po', stesa sul sedile di dietro. Guardo la fodera del soffitto e gli schienali davanti a me. Il telefono di mamma squilla, la sento annuire, fa il nome di SorellaMalvagia, sospira, dice di non preoccuparsi, che fanno sempre così. In ogni caso, si affretta ad assicurare, stiamo tornando e magari le preparerà una cosa buona. Non ci deve pensare. La deficiente all'altro capo deve averle detto qualcosa su quanto le dispiaccia non essere venuta. Mamma risponde che potrà venire la prossima volta, non c'è problema. Sì, certo, la prossima volta, quando nevicherà in agosto. Chiudo gli occhi per un po' e leggo le lettere incise dalle lucciole sotto le palpebre.

domenica 1 luglio 2007

The beginning

Ciao a tutti,
mi chiamo <CENSORED>, in arte magaCi e sono una post adolescente come tante.
In estrema sintesi il blog che avete davanti vi mostrerà, come mille altri diari del ueb, qualche pezzo di me. Simple as that.
Perchè leggermi, vi chiederete? Magari vi serve per specchiarvi, magari siete in cerca di qualcuno da giudicare. Oppure vi piace guardare, fate voi. Diciamo che la base di partenza è il mio bisogno di mettere nero su bianco quello che penso: se poi vorrete salire a bordo, beh, siete i benvenuti.

Ma poniamo una manciata di regolette, tanto per cominciare:
  1. non troverete, qui dentro, nomi veri: tutti pseudonimi
  2. non troverete, qui dentro, persone finte: tutto reale, tutto farina del mio sacchetto
  3. potrò parlare di quello che vivo o di quello che mi appassiona: a volte leggerete robe strane, ma non preoccupatevi. al limite le skippate.
Prima di cominciare con l'attività blogghistica propriamente detta, lasciatemi introdurvi al  mio mondo, che come tutti gli ambienti piccoli e chiusi è percorso da una lista di personaggi ricorrenti. Eccoli:

MammaChioccia, ovvero mia madre. Si preoccupa di tutto e vuole mettere voce su tutto. Appare fragile, ma sospetto sia solo una strategia.
Father, sì, l'augusto genitore. Beve, fuma, mangia molto, ha il diabete, così giusto per tenerci sulla corda. Però ha anche un mucchio di sogni da condividere. E ride parecchio. Ha le grinze sulla faccia per tutte le risate che si è fatto e che si farà. (per gli amanti dei cuoricini: qui metteteci uno o due cuoricini)
SorellaMalvagia, ovvero la mia temibile e perfettamente imperfetta sorellona.  Fa tutto male, ma continua ad arrogarsi il diritto di scegliere. E tratta gli altri come se sbagliassero molto più di lei.
MagaMa, amicissima fin dalle elementari. Una di quelle che animano le feste anche se ci sei solo tu, lei, una candela consumata e il rumore degli scarafaggi nei muri. Entra ed esce da storie complicate con una classe senza pari. Parlare di lei è come commentare un dipinto che adori ma che capisci solo in parte.
Jo, il mio migliore amico. Sa essere stronzo, si allontana per farsi i cazzi senza preoccuparsi di avvisare, ma ogni volta che la sua parabola di vita lo porta vicino a me passiamo periodi davvero interessanti. Piacerà anche a voi.
PrincipeAzzurroMancato, ovvero il ragazzo e futuro marito di SorellaMalvagia. Un cretino, se volete la mia humble opinion. Bazzica parecchio per casa, fa il simpatico costringendomi ad ascoltarlo per minuti interminabili. E solo per questo sono stata costretta ad inserirlo nella sacra lista.

Ecco, per ora ho finito. Buona lettura futura.

PieSse: Quando vedrete post con il tag "personaggi", saranno aggiornamenti alla lista di cui sopra.