lunedì 3 settembre 2007

dieci e quarantacinque

Parte 1: sorella
 
Mi ha preso, trascinato in stanza, ha chiuso la porta dietro di sè, si è guardata in giro come se temesse microfoni nascosti. La piccola pausa di silenzio è stata più che sufficiente, ma per amore di convenzioni sociali fra sorelle ho deciso di aspettare la componente verbale del racconto.

Ovviamente si è parlato del PrincipeAzzurroMancato. Che nei giorni scorsi è apparso troppo freddo: ha  lavorato fino a tardi, risposto con sms telegrafici, è tornato a casa come un manichino adagiato su un nastro trasportatore. Poltrona, tivù e discorsi evasivi. A un anno dall'inizio della loro folgorante relazione l'impressione è che tutto sia precipitato in una fossa ovattata sul fondo dell'oceano. Dalla quale, per definizione di abominevole pressione in fondo al mar, è piuttosto difficile uscire. Ma lei non vuole una cosa del genere, lei si aspetta altro dalla vita con qualcuno. Lei. E' pronta a dargli il calcio in culo che si merita, altrochè.

Ho chiesto: cosa ha fatto per rispondere alle (ipotetiche) provocazioni di lui? Ha cercato di parlarne? Se ha un'impressione del genere da così tanto tempo (si parla di un mese e mezzo almeno, per la cronaca) perché non condivide i suoi dubbi? Nelle due settimane di ferie che si sono sciroppati, non era andato tutto a gonfie vele? Lei, dal canto suo, si sente ancora attratta da lui come nei primi (e mitici) giorni?
Come prevedevo, ha iniziato la sua ormai collaudata ritirata strategica, schierando il fuoco di fila delle complicazioni: è partita da ostacoli di natura procedurale ("non posso farlo, non sarebbe corretto") fino ad arrivare alle obiezioni di natura ideologica ("però se mi comportassi così ogni volta, sarebbe come dichiarare la fine di un rapporto basato sulla fiducia").
Al quinto cavillo le ho chiesto di rendersi conto di come si stava sviluppando la conversazione. Era venuta da me per raccontare un problema, avevo cercato di analizzare il problema con lei, durante l'analisi si era dedicata a smontare il problema, a "normalizzarlo" inserendolo in un flusso di "eccezioni gestite" nella sua applicazione "RelazioniAmorose". Mentre ero in piena requisitoria mi ha urlato addosso: io e il mio lavoro del cazzo, non sto discutendo con un computer, lo devo capire una volta per tutte.
Ho cambiato tattica: mi sono avvicinata agli occhioni sull'orlo del pianto e le ho detto che lo so, che non è facile gestire la propria vita, che non c'è uno schema da seguire, che gli altri sono sembre bravi a sostituirsi a noi al momento delle scelte, ma è solo perchè non soffrono degli effetti delle scelte. Però sono sua sorella, un po' di bene le voglio, non mi piace che stia male, e soprattutto che stia male sempre per gli stessi motivi. Capisco che siamo tutti ripetitivi in modo analogo: si chiama carattere, però quando chiedi consiglio a una persona di solito lo fai proprio per confrontarti con un carattere diverso e capire meglio quali sono i bug che ti caratterizzano.

Mi ha risposto che non fa niente, si è ricomposta e ha piazzato il secondo spazio pubblicitario di silenzio, poi ha detto che sì, deve cercare di viversi le cose nel modo giusto (bandierina: è la centoquarantaduesima volta). L'ho abbracciata e le ho detto che dovevo proprio andare, che magari stasera avremmo parlato di più.


Parte 2: mamma

Aveva già le chiavi in mano, la giacca leggera che pendeva dall'avambraccio sinistro, quell'espressione austera che le prende quando si va all'ospedale. Mi ha chiesto come va con la sorella: ho fatto spallucce, che significa "nessun pericolo di vita", ho aggiunto che l'avrei ragguagliata strada facendo. Siamo salite in macchina nel consueto silenzio mattutino, masticando i sapori dei dentifrici e il residuo dei caffè. Radio accesa, traffico compatto, clacson. Ho chiesto com'è andata la nottata. Non mi sembrava che si fosse svegliata e me lo ha confermato: tutto tranquillo, si sente meglio in questi giorni. Sarà il sole di agosto. Sarà che prima o poi le cose passano. Ride. Ho usato un semaforo rosso per trascurare la strada e fissare le pupille nelle sue: ho risposto che prima o poi riprenderà una vita normale e le mancherà tutta questa routine. Le mancherà fare questa strada insieme e parlare. Non parlavamo tanto da quando avevo finito il liceo, le ho ricordato. Senza contare le amiche del circolo: quelle non le avrebbe mai conosciute senza la sua salute altalenante.
A proposito, ha detto, e ha iniziato a parlare di Mary45 (nome d'arte, se ve lo state chiedendo), che descrive il figlio come se fosse il primo (e il migliore) ad aver fatto qualsiasi cosa, ma "per il resto" è una tipa buonissima. Ha detto proprio così, buonissima: ho cercato di immaginarmi questa persona che non farebbe male a una formica, che si batterebbe per qualsiasi ingiustizia, per minuscola che possa essere. Una specie di super massaia, vestita di grembiule della prova del cuoco bigodini e tuta attillata, capace sempre di scegliere per il meglio e di migliorare le esistenze dei fortunati che le capitano intorno. Nonostante i suoi meriti, la super massaia un bel giorno si ammala. Perché la fortuna è bendata, ma soprattutto perché tutti gli eroi, per quanto positivi, non possono progredire nella propria storia senza il supporto di un conflitto interno. Ma il conflitto interno deve essere capace di generare una dinamica: e quindi come uscirà la donna buonissima dall'esperienza diretta del dolore? Ho deciso di scommettere una grossa somma su di lei.
Siamo arrivate al parcheggio dell'ospedale. Sono scesa insieme a mamma, breve update sulla storia tormentata della sorella e qualche parola su di me: gli ultimi giorni a lavoro, il marasma di piccole e grandi cose da fare, i fugaci incitamenti da spogliatoio pre partita che ci dispensa il mega capo quando abbiamo ormai gli occhi rossi per un'intera giornata passata a vivisezionare il codice. Il fatto che, in qualche strano modo che nessuno di noi riesce a ben capire, ci stiamo bene, in quelle quattro mura. Ce le facciamo bastare, magari lamentandoci. Alla fine ti costruisci il tuo habitat, invece di subirlo soltanto: ci sedimenti la tua corazza fino a che l'ambiente non diventa la tua protezione, per ostile che possa sembrare in prima battuta.
Mamma ha annuito, ha detto che sembrava una cosa adatta al suo ultimo periodo. Le ho stretto la mano, gliel'ho accarezzata. Abbiamo aspettato fino alle nove e mezza, parlucchiando e stando zitte. Ci hanno dato le analisi: c'era questo ragazzetto dritto con i capelli scompigliati e il camice aperto. Ha guardato i fogli e ha fatto "tsz", poi ha sorriso, ha detto "alla prossima". I valori non erano malaccio.
Uno degli infermieri che seguono mamma ci ha incrociate, salutate e si è fermato un po' a chiedere come andava. Tutto bene, ha risposto lei, si tira avanti. Si è scusata di non poter restare ancora (al che abbiamo riso tutti: scusarsi di non poter restare in corsia è stata eletta battuta della settimana), ma l'accompagnatrice ufficiale (mi ha indicata) era attesa altrove. Ho fatto un inchino e le ho graziosamente mostrato l'uscita.
In macchina, siamo tornate a casa con la strada più sgombra. Sembrava rilassata, quasi assonnata. Non abbiamo parlato molto. Mi ha detto che deve andare a fare la spesa, ha elencato alcune cose che non deve assolutamente dimenticare.

L'ho lasciata davanti al portone e mi sono fiondata in azienda.

Dieci e quarantacinque del mattino: il momento di iniziare la mia giornatina di lavoro.